01.04.2021
Relazioni
Il bicchiere etiope, la cooperazione internazionale, il Covid 19…..Coopservice c’è
L’Obiettivo 17 dell’Agenda 2030 definisce le partnership necessarie per la sostenibilità

Tutti ad Addis Abeba per la cooperazione internazionale del nuovo millennio

Come spesso accade, alla fine dei conti, è fondamentalmente una questione di bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ciò vale, in particolare, per i grandi consessi internazionali convocati per questioni di notevole importanza per le sorti dell’umanità.

È il caso della Conferenza di Addis Abeba del 2015, la terza del nuovo secolo sulle tematiche del finanziamento dello sviluppo sostenibile, che avrebbe anticipato di 3 mesi il varo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Una occasione piuttosto partecipata se si considera che 174 Stati membri delle Nazioni Unite inviarono delegazioni al più alto livello, e che ai governi si unirono i rappresentanti delle Nazioni Unite, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio, oltre ad importanti leader d’impresa e della società civile.

Il risultato fu l’Addis Abeba Action Agenda, uno schema-quadro globale che cerca di allineare i flussi di finanziamento della cooperazione internazionale con le priorità sociali, ambientali ed economiche che di lì a poco sarebbero state definite dall’Agenda dell’Onu.

 

Cooperazione e partnership mondiali al servizio dell’Agenda 2030

Perché proprio questo è ciò che riempie per metà il bicchiere etiope. I precedenti accordi sul reperimento e l’orientamento dei finanziamenti per la crescita sostenibile, quali il Monterrey Consensus del 2002 e la Doha Declaration del 2008, non avevano legami formali con gli antesignani dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs), ovvero gli 8 Obiettivi di Sviluppo del Millennio varati dall’Onu all’alba del nuovo secolo.

Diversi Paesi avrebbero preferito continuare così, configurando quindi i percorsi di finanziamento per lo sviluppo come processi autonomi, ma alla fine si cercò il modo di dare gambe più solide alle ambizioni.
Si convenne pertanto che questa volta sarebbe stato meglio procedere in parallelo, con collegamenti formali, così da mobilitare e indirizzare al meglio le risorse necessarie per raggiungere nei quindici anni successivi gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

Ecco allora che nella definizione dell’Agenda 2030 si afferma che “l’Addis Abeba Action Agenda sostiene, integra e aiuta l’attuazione degli SDGs” e vengono cadenzati numerosi follow-up (compreso un forum annuale dell’Economic e Social Council delle Nazioni Unite) che periodicamente incrociano i dati dei due protocolli, aggiornandone progressi e ritardi.

Quella ‘piccola’ percentuale che va (andrebbe) agli aiuti pubblici allo sviluppo

Ma così come va dato merito alla Conferenza etiope di avere affermato la centralità dei finanziamenti e degli aiuti necessari al raggiungimento dei non più rinviabili 17 Goal per la sostenibilità futura della vita degli uomini, secondo i critici in realtà la montagna avrebbe partorito il topolino.
E questo perché soprattutto dalle nazioni più ricche (in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Giappone all’epoca accusate di avere fatto lobby per impedire accordi ben più impegnativi) ci si sarebbe aspettato uno slancio più compatto e deciso davanti a traguardi così importanti come la lotta alla povertà e alla malnutrizione o la battaglia contro il climate change.

A dire il vero, in effetti, i dati forniti dalla Banca Mondiale sugli aiuti economici internazionali mostrano una situazione ancora poco soddisfacente.
Tra gli Stati più avanzati, soltanto sei hanno attualmente raggiunto o superato la percentuale dello 0,7% del reddito nazionale lordo destinata agli aiuti pubblici allo sviluppo (Aps), secondo quanto stabilito dalla Conferenza di Addis Abeba e recepito esplicitamente nell’Obiettivo 17.

Una classifica guidata ancora una volta dai Paesi del Nord Europa: Norvegia, Svezia e Danimarca in primis.

 

 

Non solo dollari: i diversi aspetti delle partnership mondiali per la sostenibilità

Ciò non toglie, tuttavia, che non si possano apprezzare oggettivi passi avanti. Nonostante resistenze e ritardi, nel 2019 gli investimenti globali per la cooperazione economica ammontavano a 147,4 miliardi di dollari: quasi la stessa cifra del 2018, ma confermando un sensibile incremento rispetto agli anni antecedenti e con una quota maggiore destinata ai Paesi svantaggiati (per dire, sono aumentati gli aiuti all’Africa dell’1,3%).

Perché proprio questo è lo spirito del Goal 17: rafforzare le disponibilità, le modalità e gli strumenti di cooperazione internazionale per facilitare il raggiungimento di tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030, anche e soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

Ma non è solo una questione di flussi finanziari, come se tutto potesse ridursi alla necessità di una corrente ininterrotta di denaro che scorre tra i due poli della contemporaneità, quello ‘positivo’ del ricco Nord e il ‘negativo’ dei tanti Sud del pianeta: i Target dell’Obiettivo 17 non si pongono soltanto traguardi di budget monetari.
Ad esempio evidenziando la necessità di condividere con le aree più in difficoltà l’accesso ai più aggiornati progressi in materia di scienza, tecnologia, innovazione. O anche di favorire nei Paesi in via di sviluppo la creazione di competenze e capacità di progettazione strategica e buongoverno.  Nonché di promuovere un sistema commerciale multilaterale universale, non discriminatorio, equo, raddoppiando la quota delle esportazioni dei Paesi meno sviluppati. E incoraggiando e favorendo partenariati tra soggetti pubblici, pubblico-privati e nella società civile, perché i traguardi globali possono essere raggiunti solo se tutti i soggetti coinvolti collaborano attivamente.

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Percentuale del Prodotto interno lordo (GNI) destinata agli aiuti per lo sviluppo (ODA) nelle nazioni più ricche  (Fonte: The World Bank, SDG Atlas 2018,tabella riportata dal blog DeA Live Geografia)

Quella metà del mondo che non ha ancora accesso a Internet

Passi avanti, dunque. Poi però su tutto questo si è abbattuto lo tsunami Covid-19. L’emergenza sanitaria iniziata nel 2020 ha reso molto problematico il raggiungimento di questo così come di tutti gli altri Goal dell’Agenda 2030.

Il commercio globale (almeno -20% stimato nel 2020), gli investimenti e le rimesse sono in netto declino e anche uno degli indicatori più semplici di innovazione, la diffusione nell’uso della tecnologia, segnala l’accentuarsi di una profonda frattura di opportunità.

Il cosiddetto digital divide è uno dei fattori critici della contemporaneità perché la diffusione delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, con la possibilità di accesso a Internet, supporta lo sviluppo e la condivisione della conoscenza favorendo per tale via lo sviluppo economico.

Alla fine del 2019, il 53,6% delle persone (4,1 miliardi) accedeva al web, ma con forti disparità tra le diverse aree del mondo.
Nel 2018, solo il 20% della popolazione in Oceania (escluse Australia e Nuova Zelanda) e il 26% nell’Africa subsahariana utilizzava Internet rispetto alle altissime percentuali del mondo occidentale: 84% in Europa e Nord America e 87% in Australia e Nuova Zelanda.

E se è vero che le restrizioni imposte dalla pandemia hanno sollecitato un maggiore utilizzo delle moderne tecnologie comunicative, occorre ricordare che diverse aree del mondo ne sono impossibilitate soprattutto in ragione di un’arretratezza strutturale determinata dalla inadeguatezza o peggio dall’assenza di infrastrutture telematiche. Ecco allora che in tempi di pandemia il digital divide rischia di incrementare la propria incidenza, disegnando uno squilibrio ancora maggiore tra le diverse aree del pianeta.

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Percentuale di popolazione che utilizza Internet nel mondo (Fonte: The Sustainable Development Goals Report 2020,tabella riportata dalblog DeA Live Geografia)

Il (migliorabile) contributo italiano alle partnership per la sostenibilità

A livello europeo, l’indice composito elaborato per il Goal 17 misura variazioni negative tra il 2010 e il 2018 per la maggior parte dei Paesi.

In particolare peggiora in tutta Europa l’indicatore relativo alle importazioni dai Paesi in via di sviluppo ma in generale la dimensione degli aiuti pubblici allo sviluppo risente dell’incremento dei deficit statali.
L’Italia non fa eccezione: l’indicatore composito messo a punto dall’Asvis peggiora fino al 2015 a causa dell’aumento del debito pubblico e della diminuzione delle importazioni dai Paesi in via di sviluppo, per poi sostanzialmente stabilizzarsi negli anni successivi.

Nel 2019 la quota dell’aiuto pubblico allo sviluppo sul reddito nazionale lordo si attesta allo 0,24%, livello ancora molto lontano dall’obiettivo internazionale (0,7%).

La metà di tale risorse (contro una media del 10% per gli altri Stati donatori) sono state però impiegate nella gestione dei migranti e dei richiedenti asilo sul territorio nazionale, e solo rispettivamente il 6% e il 5% per finanziare progetti di cooperazione internazionale nel campo educativo e sanitario.

La previsione dell’impatto della crisi pandemica sull’attuazione del Goal 17 è, per l’Italia, fortemente negativa: nel 2020 viene stimato un aumento straordinario del rapporto tra debito pubblico e Pil, che, secondo Eurostat, alla fine del primo quadrimestre era già pari al 137,6%.

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Andamento dell’indicatore elaborato dall’ASviS per l’Italia per il rafforzamento del partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile (Fonte: Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile)

Le imprese per il futuro sostenibile: Coopservice c’è

Tutti i 193 paesi membri dell’ONU sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare il mondo su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo.
Ciò vuol dire che ogni Paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di azione che consenta di raggiungere i 17 Goal e i 169 Target condivisi.

Ma perché gli Obiettivi dell’Agenda 2030 possano concretamente essere raggiunti è necessario, all’interno di ogni nazione, che l’azione dei governi sia supportata da un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società: enti pubblici, imprese, società civile, università, centri di ricerca, operatori dell’informazione e della cultura.

In particolare i 17 Obiettivi chiamano in causa il ruolo fondamentale delle aziende attraverso gli investimenti posti in essere, le soluzioni sviluppate, le pratiche adottate. Non si tratta solo di decisioni che coinvolgono la dimensione etica delle imprese: data l’inevitabilità e la velocità dei cambiamenti in corso, sempre di più l’inserimento della ‘sostenibilità’ nella mission aziendale è destinato a diventare anche un irrinunciabile fattore di competitività.

In coerenza con la propria identità di impresa mutualistica da diversi anni Coopservice ha raccolto l’appello alla mobilitazione planetaria per la sostenibilità e intrapreso un percorso di impegno per la ricerca di soluzioni tecniche ed organizzative in grado di rispondere ad alcune delle principali sfide imposte dall’Agenda.

Per ciascuna delle proprie linee di business ha adottato obiettivi di sviluppo qualificati come prioritari e che impattano sulla creazione di posti di lavoro, la salute e il benessere dei propri dipendenti e delle comunità in cui opera, le politiche di welfare per i soci e il personale, le politiche di gestione delle risorse umane, la riduzione del consumo di materie prime, l’efficientamento energetico, il sostegno alle comunità, la prevenzione dei crimini. Il resoconto delle azioni svolte è pubblicato ogni anno nel Report integrato del Gruppo.

Va inoltre ricordato che Coopservice figura tra i firmatari del ‘Manifesto per il nuovo Green Deal, un documento sottoscritto dai rappresentanti delle più importanti aziende e organizzazioni di impresa del Paese per dare impulso all’attuazione degli obiettivi definiti dall’European Green Deal e dal Circular Economy Action Plan, i programmi per la crescita sostenibile varati recentemente dalla Commissione Europea.

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